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Le perle del Trecento

In questo mondo una cosa si perde ed una si trova. A mio malincuore è venuto a mancare all’affetto dei suoi cari, due mesi or sono a questa parte, il mio carissimo amico Giovanni Van Brathschen, affermato bibliofilo tedesco, naturalizzato sammarinese e attivo presso la biblioteca cateriniana (seminario S. Caterina, in Pisa), il quale, prima della sua dipartita, ha voluto farmi lascito di un preziosissimo volumetto ignoto ai più. Come potrà essere sorto in voi il dubbio, mi riferisco, miei direttissimi lettori e, voglio ben sperare con tutta la parte di cuore concessami, miei discepoli nell’opere letterarie che io, come sono solito, recensisco, al Cronica conventus antiqua Sancte Katerine de Pisis, scritto strepitoso del Peccioli. Rileggendo con cura più e più volte tale volumetto, dal recalcitrante gusto proteso ad una narrazione visionaria, mistica, ma al contempo, agevole e altisonante, mi sono sempre più avvicinato alla vita e alle altre opere del Cavalca; quasi lui, con quello spirito di religioso guerriero, s’insinuasse un rivisitato Mosè allegorico che spalanca le onde e i flutti marittimi al popolo eletto e pregiudicato d’Israele, affinché potesse giungere in una terra più ricca e fertile.

Tale e quale mi sento io dopo questa deliziata lettura. Il liber, redatto nell’ultimo decennio del trecento dal frate Domenico da Peccioli, cita infatti nelle sue righe, secondo lo stile dell’incarnazione pisana, lo scrittore Domenico Cavalca, il quale ebbe una vita dedita con zelo all’interno dell’Ordine dei Frati Predicatori Domenicani e nel convento del Peccioli stesso. La sua intera esistenza, infatti, si svolse all’interno del convento di Santa Caterina suddetta, in un periodo di forte ambivalenza culturale per la comunità monastica: da un lato infatti, il convento era promotore della cultura nascente volgare, mentre dall’altra, si rivelò, stando agli scritti dell’epoca, un covo di fornicatori seriali e compulsivi, come testimoniano e accusano varie fonti, tra cui Tommaso D’Aquino, il quale propose come rimedio al vizio l’istituzione di un longevo ed intenso corso di Artes, “sicut medicamento”, come si può ben leggere. Il Cavalca, pio e devoto religioso, sebbene non abbia mai ricevuto l’agognato titolo di lector, è ricordato per il suo misericordioso libellum sulla sodomia, il De Fornicatione, unica arma culturale dinnanzi alla dilagante corruzione morale captata dal Tommasone. Il libro tratta in maniera metodica ed approfondita il tema della sodomia, condannato nella società medievale, dove si narra che il diavolo apparve a un giovane, chiamato Garolus, e che, tramite il suo fetore riuscì a sedurlo. Il giovane, dapprima fulgido e bello in armi, quasi richiamasse un miles gloriosus di plautina memoria, in procinto di partire per il pellegrinaggio al SS. Sepolcro, incontra sulla via una giovane donna, che con lui condivide il sentimento religioso, ma che si rivelerà essere nient’altro che Belzebù incarnato in avvenenti sembianze, pelle bianca e capelli d’oro inanellati, richiamando alla mente un’ipotetica donna angelo cavalcantiana. Il nostro giovane subirà un abbruttimento esteriore ed interiore, come un Dorian Gray, che viene sempre più attratto dal peccato, dal male e dal fetore mortis (chiaramente secundae) che la ragazza emana. Il giovane si troverà presto in una taverna, dove si venderà come mercenario ad altri uomini, i quali abuseranno di lui. Lungo la narrazione e l’esposizione dei fatti, i quali lo fanno vergognare, è la voce del Cavalca a denunziare a gran voce forti componenti di giudizi morali, rendendo il trattato tale. Il tono è spiccatamente alto, impregnato di un latino sommo, quasi come riuscisse a distaccarsi completamente dalla tematica secolare e profana, facendo levitare, quasi come un fachiro, la mente del lettore. I ragionamenti, come qualsiasi trattatello rigoroso trecentesco sono fitti, serrati e ben costruiti, quasi come se la premura primaria del Cavalca fosse quella di costruire un solido castello inoppugnabile dai santoni e da i moralisti, condannando gli errori derivati dal vizio e dalla corruzione mondana (si pensi al dado ed al vino nelle taverne buie e fetide di mal costume), ma porgendo l’altra guancia agl’erranti. Il libro, anche se non più attuale in materia di presa di posizione contro il vizio di Lot, oggi non condannabile, mi ha invitato a riflettere che anche nella vita nostra terrena di tutti i giorni, spesso possiamo essere soggetti alle più gravi tentazioni, quali, ad esempio, il denaro, gli appalti e la bestemmia. Essi non fanno altro che abbuiare l’animo nostro e di chi ci sta attorno, inducendolo al peccato mortale; noi possiamo solo basarci sugl’exempla di tali magni viri che hanno fatto della lotta per il lebbroso,
il malato, il vizioso, l’usuraio, il falsario, il mercenario ed il poverello il loro vessillo di battaglia, per liberare l’uomo, in ogni quando ed ogni dove.

Giacomo Mastrosimone