Due anni fa, una mattina di marzo, alla presenza del fratello del poeta e di chi scrive questa nota, furono riesumati dalla fossa comune, dove erano stati sepolti tredici anni prima, i resti mortali di Sergio Corazzini.
I morti senza nome dormono in un angolo assai lontano del nostro cimitero: sul limite estremo, dove Campo Verano non è quasi più cimitero e comincia a confondersi con la tragica eguale distesa della campagna romana. Sembrano sepolti sulla soglia dell’infinito; e io ricordo che pensai e credetti a un viaggio senza possibile meta, per strade irreali, mentre col fratello di Sergio seguivo lo scavatore che sopra una spalla recava i suoi arnesi e sotto il braccio una piccola cassa di zinco… Tristissimo viaggio, consolato appena della frescura di qualche goccia di pioggia che a quando a quando un vento già tiepido di primavera ci gettava sul viso strappandola a un cielo di marzo, gonfio, oscuro, intriso, come una immane vela sfuggita a una tempesta!
Le ossa di Sergio furono presto dissepolte. Come fummo giunti a un riquadro dove fino dal giorno prima era stata identificata la cassa del nostro povero amico e ancora fresca era la zolla rimossa, l’uomo che ci aveva preceduto scomparve d’un salto sotterra; e da allora non vedemmo più se non una mano che a intervalli eguali affiorava all’orlo della fossa e lentamente, uno dopo l’altro, deponeva ai nostri piedi i resti che prima distrigava dalla terra e dalle erbacce e non udimmo se non una voce, incupita dalla risonanza sotterranea, che accompagnava ogni nuova offerta della mano riapparsa con la stessa parola: ecco.
Né quella voce disse qualche cosa di più o di diverso quando sull’orlo della fossa fu deposto il teschio di Sergio che la terra sembrava avesse più profondamente scarnito e quasi modellato di se stessa; ma fu forse una pietà improvvisa quella che spinse lo scavatore a offrirci — subito dopo e accanto al teschio — un ritrattino di Sergio che in quell’indimenticabile giugno del 1907 in cui il poeta morì noi volemmo sepolto con lui.
Il ritrattino, deposto tra la cassa di noce e quella di zinco, si era prodigiosamente conservato. Era, sì, ingiallito dal tempo, ma non più di quanto sarebbe stato se per tutti quegli anni fosse rimasto appeso alla parete di una stanza. E Sergio era tutto vivo in quella piccola immagine: anche lì, con il capo un po’ redine a destra come lo teneva sempre, sopratutto quando prendeva uno di noi sottobraccio e cominciava, quasi in un impeto di canto: « Forse, Antonello, nostra suora morte » … Ma quell’impeto di voce (come dolce, oggi, al ricordo !) si attenuava subito nei versi che seguivano ed ecco, allora, le indimenticabili pallidissime mani di Sergio lavarsi quasi per accarezzare e sorreggere insieme le nuove parole che la sua voce, diventata appena un murmure da quanto s’ era estenuata, sembrava dovesse lasciar cadere nel silenzio, una per una : « Forse, Antonello, se desio di vita — ci crebbe 1′ ora delle prime stelle ).
Orbene, Sergio era così vivo in quel ritratto che l’ offerta improvvisa dello scavatore, per noi che assistevamo muti al tristissimo officio, era veramente apparsa un rifugio dallo sgomento suscitato da quel povero teschio, rosso di terra umida ancora. Ma non potemmo indugiare troppo a lungo davanti a quella dolce immagine sbiadita, che già l’uomo aveva rinchiuso nella piccola cassa i resti dissepolti e bisognava riprendere il cammino dietro di lui verso il colombario dove anche il nostro caro avrebbe avuto finalmente una sua minuscola casa con su scritto il suo nome e, davanti al nome, una lampada accesa.
E riprendemmo il cammino in tre; e io credo di non aver mai invocato e benedetto come quel giorno il refrigerio delle gocce di pioggia che ancora il vento di marzo mi gettava sul viso.
Lontana da me ogni intenzione di valutare dal punto di vista critico l’opera poetica di Sergio Corazzini tutta raccolta nel breve volume che segue! Troppo fu legata la mia prima giovinezza alla giovinezza di Sergio perché io possa, riprendendo oggi in mano i suoi versi, allontanarmene al punto di esaminarli e discuterli ! Eppoi: se, nei quindici anni che sono trascorsi dalla morte del poeta, la terra che in quella mattina lontana è stata mossa intorno ai suoi resti mortali ha scarnita quella sua triste bocca canora, non meno tenacemente e profondamente l’onda vertiginosa del tempo (e quanta furia di flutti!) ha corroso quella mia anima fanciullesca nella quale il suo lamento di povero « angelo in esilio » trovava una risonanza compiuta: onde forse, oggi, così nella mia anima come d’altronde in quella dei molti compagni dall’ora che egli ha lasciato a martoriarsi per le strade del mondo, l’ultima eco del suo spasimo si incrocierebbe fatalmente con altre voci difformi e con l’eco di altri spasimi che furono sconosciuti al suo spirito. E il contrasto non potrebbe se non inquinare la pura onda di dolorosa poesia di quella nostra indimenticata adolescenza comune.
Per codeste ragioni come io ho inteso di prescindere in questa mia nota da ogni valutazione critica della poesia di Sergio Corazzini, così ho sconsigliato una cernita dei versi e delle prose la quale avrebbe presupposto quella valutazione. Ma altri, forse, non saprà fare a meno di compierla. E, forse, più d’uno che io vorrei dissuadere dall’inutile impresa. A che giova infatti che qualcuno venga a ridirci oggi quanto di Samain, di Jammes, di Rodenbach sia passato nel poetico languore di Sergio Corazzini e nella sua cristiana umiltà rassegnata o fino a quel punto egli abbia derivato da Laforgue certi suoi commoventi tentativi di difendersi, con un pallido sorriso d’ironia, dalla tormentosa coscienza del suo destino e dal martirio di una sensibilità sempre più esacerbata e dolente? Codeste indagini che investono sopratutto le parentele spirituali fra scrittori possono essere condotte sull’opera che un poeta fornisce con la coscienza di essere un poeta, non sulle pagine di un giovane il quale, in un impeto di dolorosa sincerità, solo perché gli altri non lo chiamino poeta, discopre il suo volto più vero. Riaprite le prime pagine del « Piccolo libro inutile » e ascoltate quel murmure lene e accorato che quasi disdegna di comporsi in parole e in ritmi per dire che il fanciullo ignora le parole e i ritmi di quelli che il mondo chiama poeti :
Perché tu mi dici poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange,
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al silenzio.
Perché tu mi dici poeta?
E sopratutto meditate questa rassegnazione :
Oh ! Io sono veramente malato!
E muoio un poco ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Io so che per esser detto poeta conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire!
Amen!
La sua poesia infatti non era se non l’ombra proiettata sul suo volto di giovinetto esengue della morte imminente che l’aveva in suo dominio da quando egli aveva cominciato a conoscere e amare la vita. Da allora Sergio sentì davanti a sé la nemica invisibile e da allora cominciò a cantare. Ma canti veri e propri non furono. Appena battiti di poesia; ciascuno fugace e ansioso come il batter di ciglia del fanciullo il quale spia se ancora gli sia sopra lo sguardo ostile che lo impaura e, per non incontrarsi con quello, sguscia e sgrana le sue trepide occhiate lontano. Così Sergio: per non vedere davanti a sé la nemica, egli cerca d’intorno e lontano tutte le cose dove gli sia dato ritrovare un’eco pel suo spasimo, un pianto che risponda al suo pianto. C’è questo pianto delle cose vicine e lontane e Sergio lo coglie con una prodigiosa sicurezza di istinto; ma fra il pianto delle cose e il pianto della sua povera anima smarrita il fanciullo malato non può e non sa trovare quell’equilibrio e quella rispondenza serenatrice che soli consentono la vita e il conforto dell’arte a quanti furono e saranno i poeti del dolore del mondo.
Basta infatti che Sergio confronti con il dolore delle cose il suo stesso dolore perché egli si accorga che questo inesorabilmente sovrasta e senta che egli non riuscirà mai, come gli altri poeti, a staccarlo da sé e a superarlo, confondendolo con quello.
Nella desolata coscienza di questa incapacità è tutto il suo dramma e da questo dramma, troppo sofferto forse, nasce la sua poesia.
Guizzi di vita dunque : impeti di dolore. E tornino ancora fra la gente senza altre parole di commmento, né deformati dall’arbitrio di una scelta: nella loro nudità e nella loro integrità!
Chi riporta queste parole al cuore degli uomini oggi riaccende anche lui una lampada davanti a un cuore e a un nome: come fu fatto da noi in quella tragica mattina di marzo.
I due riti somigliano: e però io ho osato ricordare al principio di questa nota l’uno cui presi parte anche se il ricordo possa aver rinnovato a una Madre un troppo grande dolore.
Quella Madre perdoni!
[1921]
FAUSTO M. MARTINI