Ovvero come liberalizzare il mercato dei taxi deprezzando i costi delle licenze tramite un’azione di concerto fra enti di diritto pubblico e libero mercato
MILANO – Il 26 Maggio 2015 il Tribunale del capoluogo lombardo sospendeva a tempo indeterminato, al termine di un’aspra polemica durata ben dodici mesi – arrivata persino a scuotere le fondamenta stesse del neoliberismo – il servizio UberPop.
UberPop è molto semplice: in presenza di una moderata richiesta (ovverosia in città che godano di un certo respiro nel panorama internazionale) ogni possessore di un’automobile, dotato di alcuni semplici requisiti di sicurezza e serietà personale, mettendosi a disposizione tramite un portale dedicato, trasporta da un luogo all’altro il cliente che ne faccia richiesta. Senza licenza. Costando la metà di un taxi.
Ovviamente Uber non ha inventato nulla, e ovviamente nel territorio della Repubblica la vita di UberPop è stata molto breve: il quadro normativo vigente, come non di rado accade, parla chiaro nel definire manifestamente fondata l’accusa di concorrenza sleale strenuamente propugnata tanto dai portavoce quanto da ogni singolo esponente della corporazione dei tassisti.
La questione avrebbe potuto presto definirsi chiusa, e non ci troveremmo senz’altro – a più di un anno di distanza – a spendere parole in merito se non per il fatto che, con il suo semplice servizio illecito, Uber ha risposto nel migliore dei modi ad un’esigenza solida e attuale. Esigenza che, pur tuttavia, appare in qualche modo tralasciata dalla cittadinanza a causa della cristallizzazione di un assetto ormai percepito come trascendente e immutabile status quo: mi riferisco alla già citata (e quanto mai rigidissima) corporazione dei tassisti, e al fatto che, nell’immaginario comune, il taxi sia un lusso.
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